Nato nella Galizia (La Coruna) il 2 maggio 1935, Luis Suarez (per tutti Luisito) inizia la carriera in mezzo al campo negli anni ’50. Centrocampista fine e completo, a tal punto da essere definito da Alfredo Di Stefano un architetto per come faceva ripartire il gioco e per la precisione nei lanci lunghi, dopo aver indossato i colori di Deportivo La Coruna ed Espana Industrial il primo grande salto è al Barcellona (squadra che lo vedrà esordire nella nazionale spagnola che porterà sul tetto d’Europa nel 1964) fregiandosi dei primi successi di squadra e del Pallone d’Oro (1960) che ne fa ancora l’unico calciatore spagnolo ad averlo vinto. Nell’estate del 1961, ritrovando colui che lo scoprì e lo valorizzò (Helenio Herrera), il presidente dell’Inter Angelo Moratti lo fa sbarcare lungo i Navigli sborsando nelle deficitarie casse del Barcellona una cifra prossima ai 300 milioni di lire. Con i meneghini giocherà nove stagioni da trascinatore assoluto vincendo 3 Scudetti (con tanto di prima stella), 2 Coppe dei Campioni e 2 Coppe Intercontinentali corroborate da 328 presenze e 54 reti (l’ultima col Torino in Coppa Italia nel 1970) molte delle quali di pregevolissima fattura. Tramontata l’epopea della Grande Inter (il cui emblematico canto del cigno fu la caduta nella finale della Coppa dei Campioni col Celtic) si accasa alla Sampdoria giocando altre tre stagioni. Attaccate le scarpe al chiodo intraprende la carriera di allenatore (guiderà anche la nazionale spagnola Under 21 vincendo il campionato europeo e quella maggiore) che, però, non si rivelerà all’altezza della carriera del Suarez calciatore anche se siederà sulla panca dell’Inter tre volte. Una volta (1974-75) per l’ìntera stagione e due volte (anni ’90) subentrando a Corrado Orrico e come traghettatore da Ottavio Bianchi a Roy Hodgson.
Con la scomparsa di Luisito se ne va via un altro autentico monumento di quella grande squadra forgiata dal “mago” appartenente a un calcio romantico che oggi non c’è più.